Quando, nel giugno dell’827, un’armata musulmana di 10.000 uomini e 700 cavalli partì da Susa, in Tunisia, per sbarcare a Mazara, i saraceni avevano già stabilito da decenni basi nelle Egadi per le loro incursioni contro la terraferma. Ed è probabilmente di quel periodo la costruzione di una torre di avvistamento saracena sul promontorio di Punta Troia.
Durante la dominazione araba l’isola venne chiamata Gazìrat Malitimah e, secondo Gin Racheli, fu verosimilmente ripopolata da coloni tunisini e profughi cristiani provenienti da vari centri africani e siciliani. In quel periodo si assistette a un intenso traffico marittimo da e per la vicina costa dell’Ifriqiya, e molti termini entrarono nel vocabolario della pesca e in quello domestico. Di origine araba è il campiuni, il fregio a forma di scimitarra che ornava le poppe delle barche; un reperto di campiuni è esposto al Museo del Mare.
Nel 1078 le truppe cristiane al comando del conte Ruggero d’Altavilla tolgono Trapani, Lilibeo e le Egadi ai musulmani. Attorno al 1140 Ruggero II, re di Sicilia, trasformò la vecchia torre saracena di Punta Troia in un vero Castello a presidio dell’estremità occidentale del regno più ricco e potente del Mediterraneo di quel periodo.
Marèttimo mantenne il nome arabo anche in documenti di epoca normanna. Così infatti la chiamò il grande geografo medievale al-Idrisi nel celebre Libro di Re Ruggero, del 1154, che al riguardo scrisse:
«A ponente di Favignana è l’isola Malitimah (Hierà Nèsos o Marìtima) che sta di faccia a Tunis e a Cartagine e scostasi da Faugnana per trenta miglia. Non ha porti. Di animali vi s’incontran capre e gazzelle».
In un’altra parte del più famoso trattato di geografia medievale, il geografo di Ceuta si contraddice e, parlando di Taràbanis (Trapani), cita Marèttimo e le altre Egadi in questo modo:
«Presso questa città è la Gazìrat ’ar Rahib (Faugnana), la Gazìrat ’al Yàbisah (Lèvanzo) e la Gazìrat Malìtimah (Marètimo); ciascuna delle quali ha un porto, dei pozzi e delle boscaglie da far legna».
Nei successivi periodi di dominazione sveva, angioina e aragonese Marèttimo seguì le sorti della Sicilia, accentuando un isolamento che ebbe il culmine durante il lungo dominio spagnolo, quando la parte di ponente dell’isola divenne ricettacolo di pirati e corsari di tutte le risme, con una prevalenza di quelli saraceni. Ma non solo: quando era il caso, anche i corsari genovesi, catalani, pisani e perfino messinesi e trapanesi si mettevano d’impegno a fare danni e razzie.
I pochi abitanti erano costretti a vivere in grotte e l’unico vero presidio del potere centrale era costituito dal Castello e dalla sua sempre più esigua guarnigione, sebbene l’isola fosse così descritta nella Historia di Trapani da Giò Francesco Pugnatore nel 1595:
«La terza isola, che è più occidentale di Levanso, e lunge trenta miglia da Trapani, è dà nostrali chiamata Marèttimo: quasi dire volessero mare di timo, essendo ella tutta di thymo, che volgarmente rosmarino, o satiro, si dice, grandemente copiosa. Ma sacra fu dà Latini, e specialmente da Plinio, nominata; e cioè forse infausta et esecrabile, per esser ella tutta dentro e d’intorno montagnosa, e senza alcun’acqua da bere fuori di un rivo che alla meridionale sua falda nel mare continuamente trascorre, e per esser parimente d’ogn’intorno scogliosa et alpestre, e senza pur alcuno ricetto di vasselli, fuor d’uno che alla detta acqua è vicino, ma tuttavia ancora mai comodo, talmente che ella altro in se stessa non have che un manifesto pericol di quelli che in tempo di fortuna troppo accanto le vanno et uno inospito albergo di chi in bonaccia vi arriva. (E però si tiene che ella non fosse dà Cartaginesi abitata). Sacra fors’anco potria tal isola esser stata chiamata per cagion della gran copia del mele, che dà gentili era con non poca superstizione nei lor sacrifici adoperato, et è quivi dell’api, per abbondanzia del timo che vi hanno, il cui fiore è sopra d’ogn’altro volentiermente da esse gustato in gran quantità, ma però inutilmente prodotto. Imperochè non si potendo tal mele accorre per l’inaccessibile altezza del loco dove esse lo fanno, che è posto in una asprissima falda nel monte incava, egli va di continuo giuso per il vivo sasso insino al mare colando, dove finalmente tutto insino a una minima parte si perde.
Più oltre di Marèttimo furon già inverso ponente due altre isolette: le quali, come due termini che il mare sardesco dal siciliano partissero, furono per relazione di Plinio tenute esser, assai innanzi di lui, state abitate, ma dapoi, per accidente abbassandosi, essere state talmente in gran parte dal mar inondate che per la piccolezza loro rimasero sol col nome di sassi dagli itagliani chiamate».
Nel 1637 la Corona spagnola, in bancarotta per le continue guerre, cedette l’arcipelago delle Egadi al marchese Pallavicino di Genova per pagare un debito di 500.000 scudi.
Nel 1651, al largo tra Marèttimo e Lèvanzo, verso nord-est, venne trovato un grosso banco di coralli, e l’isola ospitò le barche dei corallari trapanesi, che passavano la notte allo Scalo Maestro, sotto la protezione della guarnigione del Castello di Punta Troia.
Ci furono timidi tentativi di popolamento, contrastati dalla piaga della pirateria. Sempre Gin Racheli scrive che:
«… nel 1660 una forte squadra navale algerina aggredì le Egadi: a Marèttimo c’era poco da depredare e la popolazione, rifugiata in grotte quasi inaccessibili sui monti, sparava sui moreschi dal folto del bosco; questi preferirono puntare sulla più ricca e piatta Favignana e vi si diressero a vele spiegate».
Fu alla fine del XVIII secolo che l’isola cominciò a essere popolata in pianta stabile. In quel periodo il sovrano Ferdinando IV di Borbone, spinto dall’illuminato viceré Caracciolo, aveva iniziato timidi tentativi di riforma dello Stato e di valorizzazione dei territori del regno. Con la Rivoluzione francese, sotto il viceré Caramanico, il “Real Castello del Maretimo” divenne orrida prigione, soprattutto per prigionieri politici: nel 1793, in tempi di repressione antigiacobina e grande carestia, il Castello contava ben 52 prigionieri politici, ammassati in una prigione ricavata in una vecchia cisterna detta “la fossa”.
Le condizioni della prigione vennero descritte nelle sue Memorie da Guglielmo Pepe, qui rinchiuso dal 1802 al 1803. Dal settembre del 1822 al giugno del 1825 la fossa di Marèttimo ospitò il marchigiano di Sant’Angelo in Pontano Nicola Antonio Angeletti, carbonaro oppositore del Regno di Napoli, che ci ha lasciato una dettagliata pianta da lui stesso disegnata su come era organizzato il forte di Marèttimo. Nella fossa furono rinchiusi anche il foggiano Nicola Ricciardi; il pittore siracusano, ma napoletano di origine, Antonio Leipnecher; e Gennaro Petraglione. E poi il napoletano Ferdinando Giannone, Carmine Curzio, il palermitano Bartolomeo Milone, il sacerdote don Pasquale Barbieri e l’arciprete Vincenzo Guglielmi (o di Gugliemo) di Andretta, in provincia di Avellino, trucidato nella fossa assieme all’avvocato Nicolò Tucci “per un gioco di parole malamente interpretate dai militari di guardia” (l’elenco completo è stato realizzato da Gino Lipari).
Secondo il disegno di Angeletti, la fossa aveva la forma di un trapezio isoscele avente la base maggiore di circa 6 metri, la base minore di 5,25 metri e altezza della base di 1,5 metri, mentre l’altezza della fossa era di circa 2,5 metri. Stando invece alla descrizione di Guglielmo Pepe tale altezza diminuiva verso i lati lunghi, essendo la copertura evidentemente fatta a volta.
Nel 1844 il re Ferdinando II, dopo averlo ispezionato, abolì il Castello. Insieme cadde in rovina la vicina chiesetta dedicata a Sant’Anna e la cappelletta dedicata a Maria SS. delle Grazie, unico luogo sino a quel momento in cui i marettimari potevano ricevere i sacramenti.
A metà Ottocento gli abitanti di Marèttimo lasciarono le grotte e cominciarono a costruire le loro casette di tufo. I Florio, con le loro iniziative, stavano facendo rifiorire le Egadi con le tonnare e la coltivazione dei campi, ma per Marèttimo ciò non bastò: le condizioni della comunità marettimara erano tali che cominciò, inarrestabile, il flusso migratorio verso il Nord Africa, il Portogallo e, successivamente, le Americhe.